Una testimonianza dalla casa di riposo di Villa Sant’Angela e dal centro servizi di Villa Savardo
Il Covid ci ha visitati pesantemente a Villa Sant’Angela di Breganze, la casa di riposo della Congregazione delle suore Orsoline che ospita una settantina di persone anziane non autosufficienti. In questo luogo di cura e di assistenza sanitaria il contagio ha rappresentato una esperienza ambivalente: di dolore e di morte; di cura e di rinascita. Ci siamo sentiti tutti impotenti e fragili di fronte alle troppe persone che il virus ci ha strappato in pochissimo tempo. È stata immensa la tenerezza, la forza e la tenacia che in molti hanno messo: ospiti, familiari, personale, religiose. Alcune singolari testimonianze di servizio, di cura e di generosità hanno lasciato il segno e potrebbero essere presentate come “lezioni” di vita. Per me, e non solo per me, lo sono state ed il sentimento di gratitudine è grande.
Il Coronavirus ha bussato anche alle porte di Villa Savardo, l’altro centro servizi di Breganze, pure gestito dalla Congregazione, dove vivono mamme, bambini e minori accolti nelle comunità educative residenziali. Mentre scrivo il virus è ancora presente e contagioso, ma indubbiamente meno violento di quanto sia stato a Villa Sant’Angela, dove abitano e vivono persone più anziane e fragili. Non è stato difficile leggere lo smarrimento negli occhi di alcune mamme già provate da esperienze di sofferenza, l’apprensione, la ricerca di sostegno e di rassicurazione che alla fine “tutto andrà bene”. Ed è commovente vedere in questi giorni le lacrime delle adolescenti presenti in Villa Savardo, disorientate nei mille pensieri contrastanti dell’età. Commuove e colpisce raccogliere la loro preoccupazione e domanda di mettere in protezione e di preservare anzitutto le educatrici e le suore. È il loro modo di avere cura di chi gli vuole bene, il loro “linguaggio” per ricambiare le attenzioni e la cura ricevuta.
E chi fra noi non si sente accolto in questo mondo quando ha accanto qualcuno che si prende cura di lui? La risposta a questa domanda ci aiuta sempre a ravvivare la motivazione nel nostro essere, lavorare e stare con le persone.
Raccontare l’esperienza dei giorni di emergenza Covid, farne una lettura, parlarne e scriverne sono compiti impegnativi e, ad essere sinceri, si vorrebbe farne a meno. Mi riesce più semplice lasciare alcuni spunti e richiamare parole dove si trovano condensati il senso profondo e tanti atteggiamenti che alimentano e diventano cura. Sono parole fruttuose e creatrici che ho trovato seminate nell’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti: prossimità, solidarietà, empatia, compassione, umiltà, delicatezza, tatto, ascolto, memoria, silenzio, autenticità, impotenza, pazienza, respiro, sospiro, perseveranza. Ogni termine, da leggere e pronunciare quasi sillabando, apre pagine di riflessione sapienziale ed educativa. Ogni parola pone interrogativi che abbiamo vissuto e ci hanno attraversato in questo periodo d’emergenza. Sono le stesse domande che si impongono di fronte all’esperienza della morte; sono i medesimi pensieri che entrano in ciascuno di noi, nelle nostre famiglie, nelle comunità. Talvolta ci inquietano e tormentano, ma anche ci consolano e ricostruiscono.
Utilizzando una espressione cara a papa Francesco, posso dire che ci siamo sentiti spesso come in un “ospedale da campo”, specialmente a Villa Sant’Angela. Eravamo consapevoli che prendersi cura con tutte le nostre forze ed energie delle persone a noi affidate era ed è la cosa più umana che si potesse fare di fronte ad un virus incurabile, implacabile, seminatore di morte. E nei rapporti di cura ci siamo forse umanizzati di più, perché siamo noi stessi ad essere stati curati: dagli sguardi incoraggianti, dalle strette di mano, dai messaggi di sostegno, dagli esempi di attaccamento alla vita, dalla dignità delle persone consapevoli delle condizioni di gravità. Ci ha aiutato e ci ha “curato” anche la domanda di ospiti e familiari di non ricorrere alla ospedalizzazione di anziani, chiedendo invece di accompagnarli nell’ultimo tratto di vita con cura, tenerezza, con tante carezze che ho visto dare.
Non sono poche le fragilità vissute nella struttura socio educativa di Villa Savardo e nella casa di riposo Villa Sant’Angela. Situazioni di fragilità che si sono aggiunte a condizioni di sofferenza e malattia già presenti; oppure restrizioni ulteriori per chi ha già un bagaglio di ferite ricevute, spesso profonde. “Non guariremo, ma ne avranno del bene”: quante volte è risuonata in me questa espressione, specialmente in giornate in cui tutto pareva essere appeso ad un filo che poi, spesso, si è spezzato. E partendo da questo incipit non è difficile trovare un collegamento con tanti passaggi contenuti nella enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale Fratelli tutti e, in particolare, con la parabola del Buon samaritano (Lc 10,25-37). È la parabola evangelica che papa Francesco commenta e utilizza per leggere il tempo presente e per tracciare cammini concreti per coltivare e custodire il creato e, in esso, ogni persona.
“È il Buon samaritano che si china sull’uomo ferito, medica le sue piaghe e si prende cura di lui”, così ricorda Francesco nel suo messaggio per la giornata della Pace dello scorso 1° gennaio 2021, declinando la “grammatica” della cura e invitando ad essere “pacificatori” e promotori di processi di fraternità. Basta l’analisi dei verbi del samaritano per sottolineare la correlazione con quanto vissuto e compiuto in molti luoghi di cura e, tra questi, nei centri di Breganze: si china, medica, si prende cura. Ed è proprio questo che ci ha resi e ci fa pacificatori.
Scrive Francesco in Fratelli tutti:
“Il samaritano della strada se ne andò senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. (…)
Prendiamoci cura della fragilità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano” (FT, 79). “Velocemente però dimentichiamo le lezioni della storia, «maestra di vita». Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno. Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato (FT, 35). E poiché “la speranza è audace (…), camminiamo nella speranza!”. (FT, 55).
Michele Pasqualetto